Parliamo di Economia: intervista al Professore
Antonio Lopes
Riportiamo di seguito una breve intervista al professor
Antonio Lopes, docente di Economia Politica della nostra facoltà, condotta da
Francesco Iannone.
F.I: La
crisi globale, partita dal fallimento della Lehman Brothers Holdings Inc;
non sembra ancora superata e suoi effetti continuano ad imporre politiche
di austerità.
Un suo
autorevole parere offrirebbe a noi studenti un punto di vista privilegiato,
rispetto a chi deve attenersi all'informazione generalizzata dei telegiornali e
degli altri mezzi d'informazione.
A.L:
Per quanto riguarda l’attuale crisi economica nella quale l’Europa si dibatte e
che, a mio avviso, è ben lungi dall’essere superata, si può dire che non si
riscontra alcun cambio di impostazione della politica economica né in Italia
né, ed è quello che conta maggiormente, in sede di istituzioni europee.
In
estrema sintesi in Italia e in Europa attualmente ci troviamo di fronte ad una
significativa caduta della domanda aggregata, a sua volta ulteriormente
aggravata da politiche fiscali restrittive (riduzioni di spesa pubblica e
aumenti di tasse) adottate simultaneamente da tutti i paesi dell’area
dell’euro. In una situazione del genere crollano i redditi e quindi crollano i
consumi delle famiglie. Contemporaneamente le imprese riducono i propri investimenti
perché si ritrovano con un eccesso di capacità produttiva non utilizzata. Tutto
questo si traduce in una contrazione dell’occupazione.
Sarebbe
necessario un drastico cambio di rotta da parte della politica fiscale dei
paesi più importanti dell’Eurozona (Germania in testa) i quali dovrebbero
adottare una politica fiscale più espansiva (più spesa pubblica e meno tasse).
Così facendo i paesi europei più forti aumenterebbero i loro consumi e quindi
anche le loro importazioni dai paesi periferici (tra cui l’Italia). Questo
significa che paesi come l’Italia potrebbero espandere le loro esportazioni
verso i paesi europei più importanti e riavviare, per questa via, l’economia e
quindi l’occupazione. L’altra strada da percorrere dovrebbe essere quella di
allentare i vincoli europei sui bilanci pubblici dei singoli paesi
dell’eurozona; per esempio consentire di superare il tetto del 3% sul PIL dei
disavanzi pubblici per la spesa pubblica destinata agli investimenti in
infrastrutture (opere pubbliche, trasporti) o per Ricerca e Sviluppo.
Non mi
sembra di cogliere nulla di tutto questo, per cui non credo che la situazione
sia destinata a migliorare significativamente soprattutto sotto il profilo
dell’occupazione.
F.I:
Quant'è importante per uno Stato investire sull'istruzione e sulla
ricerca?
Lei che ha modo di confrontarsi con realtà di tutto il mondo, ci faccia capire
la differenza del nostro sistema universitario rispetto a quello lungimirante
delle altre nazioni.
Un ateneo che pensa solo ad attrarre studenti, e dunque risorse, senza
investire nella ricerca, non è solo una specie di liceo avanzato?
A.L: Se
si analizza lo sviluppo economico dei principali paesi nel lungo periodo (ossia
su un arco temporale di 30 o 40 anni) ci si rende conto che il principale
fattore è rappresentato dagli investimenti in conoscenza. La conoscenza è alla
base della ricerca scientifica. La ricerca scientifica si traduce (non
immediatamente) in innovazione tecnologica che le imprese utilizzano sia per
introdurre nuovi prodotti sul mercato (pensate all’introduzione dei personal
computer o dei telefonini) o nuove tecniche con cui produrre beni già esistenti
(si pensi ai processi di automatizzazione adottati da molte imprese).
Se non
c’è innovazione tecnologica il settore industriale di un paese perde
progressivamente competitività sui mercati internazionali e si riducono
progressivamente le prospettive di crescita per le generazioni future. Se si
analizza la situazione del nostro paese si vede che abbiamo
progressivamente abbandonato molti settori nei quali occupavamo una posizione
importante negli anni ‘60 e ‘70 (Settore chimico, nucleare, informatico,
biotecnologie) per concentrarci sempre di più nei settori tradizionali
(Tessile, abbigliamento, agroalimentare, mobilio). In questi settori il
progresso tecnologico è molto più limitato e ci si deve confrontare con paesi
che sono più competitivi solo sotto il profilo del costo del lavoro. La
conseguenza è che in questi settori l’Italia, non potendo competere sui costi,
è costretta a ridurre il costo del lavoro e/o a decentrare la produzione in
paesi in cui tali condizioni sono verificate.
Scontiamo
l’assenza di una politica industriale che da oltre un ventennio non ha
affrontato le questioni degli investimenti in settori avanzati e,
conseguentemente, ha trascurato anche di destinare risorse crescenti nella sede
principale in cui si fa ricerca, ossia l’università.
L’Italia
è agli ultimi posti delle classifiche internazionali per investimenti in
ricerca e sviluppo; ha uno dei più bassi rapporti tra ricercatori e occupati e
uno dei più bassi livelli di spesa per istruzione superiore per studente del
mondo.
Il
paradosso di tutto questo è che, nonostante tutto, ad un esame più attento e
meno condizionato da molti luoghi comuni che si leggono su certa pseudo stampa,
il livello qualitativo dell’università italiana è tutt'altro che basso. La
prova di ciò è rappresentata dalla quota crescente di giovani con elevata
formazione che ormai lasciano il nostro paese per trovare una degna
collocazione lavorativa all'estero, per non parlare di ricercatori che si
formano in Italia e insegnano all'estero.
Se non
si invertono che tendenze, il declino del nostro paese è destinato a continuare.
F.I: Si sente tanto parlare di Signoraggio bancario, c'è da
credere a queste teorie?
Vorrei
che commentasse questo video che ha reso famoso il personaggio televisivo Adam
Kadmon
A.L: Le
questioni poste nel video mi sembrano un guazzabuglio in cui si mettono insieme
tante cose con una tendenza “complottistica” che lascia il tempo che trova.
Volendo restare con i piedi per terra quello che si può dire è che non può
esserci sviluppo economico se non c’è anche un sistema finanziario attraverso
il quale il risparmio viene incanalato verso gli investimenti produttivi.
Naturalmente la finanza non fa solo questo; ma il problema nasce, a mio
avviso, quando il sistema di regole che disciplina il funzionamento dei mercati
finanziari viene meno o si rivela inadeguato, come si è verificato negli Stati
Uniti e non solo nel corso degli ultimi venti anni. E’ compito della politica
riuscire a regolamentare i mercati e a imporre il rispetto delle regole.
Purtroppo il vero problema è l’assenza di un progetto politico che si faccia
carico di questi problemi.
F.I:
Se il secolo scorso è stato il secolo degli Stati Uniti d’America, quello in
corso sembra essere il secolo dove l'economia portante sarà quella asiatica.
Come vede questo mutamento?
A.L: È
ovviamente difficile fare delle previsioni, tuttavia credo che gli Stati Uniti
continueranno ancora ad esercitare una forte leadership a livello mondiale
rispetto ai cosiddetti paesi “emergenti”. Per quanto indeboliti gli Stati Uniti
continuano ancora ad essere un riferimento sia sotto il profilo economico (si
pensi alle nuove tecnologie nel campo della “green economy”) che finanziario
(il dollaro continua a essere considerata valuta di riserva). Inoltre dal punto
di vista politico e sociale, per quanto discutibili possano essere le
istituzioni e la società USA, al loro interno vi sono comunque delle forze che
premono per dei cambiamenti importanti (si pensi alle questioni della
diseguaglianza e alle lotte per i diritti delle minoranze). Non mi sembra che,
da tutti questi punti di vista, paesi come la Cina, l’India o la Russia possano
rappresentare dei contraltari rilevanti. Certamente sono paesi che hanno
sperimentato negli ultimi anni uno sviluppo economico tumultuoso, ma questa
crescita economica ha determinato una serie di squilibri rilevanti al loro
interno (basti pensare agli squilibri territoriali in Cina fra le aree costiere
e le zone interne); inoltre in tutti questi paesi lo sviluppo economico ha
portato alla ribalta nuovi ceti sociali che premono per avere anche un
riconoscimento politico e questo quindi imporrà prima o poi una messa in
discussione del quadro politico e dei regimi al potere. Tenete anche conto che
in tutti questi paesi la legittimazione delle classi dirigenti si basa sulla
capacità di riuscire a mantenere alti tassi di crescita economica e di
distribuire i benefici che ne derivano a quote crescenti di popolazione. Se
questo processo si interrompe o rallenta la stabilità politica di questi paesi
potrebbe essere seriamente compromessa.
Ringraziamo
vivamente il professor Lopes per averci dedicato del tempo, sperando che le sue
esaustive risposte abbiano chiarito molti aspetti in un campo molto controverso
in cui districarsi e spesso informazioni fuorvianti di blog su internet di
sedicenti economisti contribuiscono ad alimentare confusione e disinformazione
dilagante.
Francesco Iannone
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