lunedì 3 febbraio 2014

Parliamo di Economia: intervista al Professore Antonio Lopes

Parliamo di Economia: intervista al Professore Antonio Lopes

Riportiamo di seguito una breve intervista al professor Antonio Lopes, docente di Economia Politica della nostra facoltà, condotta da Francesco Iannone.


F.I: La crisi globale, partita dal fallimento della Lehman Brothers Holdings Inc; non sembra ancora superata e suoi effetti continuano ad  imporre politiche di austerità. 
Un suo autorevole parere offrirebbe a noi studenti un punto di vista privilegiato, rispetto a chi deve attenersi all'informazione generalizzata dei telegiornali e degli altri mezzi d'informazione. 



A.L:  Per quanto riguarda l’attuale crisi economica nella quale l’Europa si dibatte e che, a mio avviso, è ben lungi dall’essere superata, si può dire che non si riscontra alcun cambio di impostazione della politica economica né in Italia né, ed è quello che conta maggiormente, in sede di istituzioni europee.
In estrema sintesi in Italia e in Europa attualmente ci troviamo di fronte ad una significativa caduta della domanda aggregata, a sua volta ulteriormente aggravata da politiche fiscali restrittive (riduzioni di spesa pubblica e aumenti di tasse) adottate simultaneamente da tutti i paesi dell’area dell’euro. In una situazione del genere crollano i redditi e quindi crollano i consumi delle famiglie. Contemporaneamente le imprese riducono i propri investimenti perché si ritrovano con un eccesso di capacità produttiva non utilizzata. Tutto questo si traduce in una contrazione dell’occupazione.
Sarebbe necessario un drastico cambio di rotta da parte della politica fiscale dei paesi più importanti dell’Eurozona (Germania in testa) i quali dovrebbero adottare una politica fiscale più espansiva (più spesa pubblica e meno tasse). Così facendo i paesi europei più forti aumenterebbero i loro consumi e quindi anche le loro importazioni dai paesi periferici (tra cui l’Italia). Questo significa che paesi come l’Italia potrebbero espandere le loro esportazioni verso i paesi europei più importanti e riavviare, per questa via, l’economia e quindi l’occupazione. L’altra strada da percorrere dovrebbe essere quella di allentare i vincoli europei sui bilanci pubblici dei singoli paesi dell’eurozona; per esempio consentire di superare il tetto del 3% sul PIL dei disavanzi pubblici per la spesa pubblica destinata agli investimenti in infrastrutture (opere pubbliche, trasporti) o per Ricerca e Sviluppo.
Non mi sembra di cogliere nulla di tutto questo, per cui non credo che la situazione sia destinata a migliorare significativamente soprattutto sotto il profilo dell’occupazione.


F.I: Quant'è importante per uno Stato investire sull'istruzione e sulla ricerca? 

Lei che ha modo di confrontarsi con realtà di tutto il mondo, ci faccia capire la differenza del nostro sistema universitario rispetto a quello lungimirante delle altre nazioni. 
Un ateneo che pensa solo ad attrarre studenti, e dunque risorse, senza investire nella ricerca, non è solo una specie di liceo avanzato? 



A.L: Se si analizza lo sviluppo economico dei principali paesi nel lungo periodo (ossia su un arco temporale di 30 o 40 anni) ci si rende conto che il principale fattore è rappresentato dagli investimenti in conoscenza. La conoscenza è alla base della ricerca scientifica. La ricerca scientifica si traduce (non immediatamente) in innovazione tecnologica che le imprese utilizzano sia per introdurre nuovi prodotti sul mercato (pensate all’introduzione dei personal computer o dei telefonini) o nuove tecniche con cui produrre beni già esistenti (si pensi ai processi di automatizzazione adottati da molte imprese).
Se non c’è innovazione tecnologica il settore industriale di un paese perde progressivamente competitività sui mercati internazionali e si riducono progressivamente le prospettive di crescita per le generazioni future. Se si analizza la situazione del nostro paese si vede che  abbiamo progressivamente abbandonato molti settori nei quali occupavamo una posizione importante negli anni ‘60 e ‘70 (Settore chimico, nucleare, informatico, biotecnologie) per concentrarci sempre di più nei settori tradizionali (Tessile, abbigliamento, agroalimentare, mobilio). In questi settori il progresso tecnologico è molto più limitato e ci si deve confrontare con paesi che sono più competitivi solo sotto il profilo del costo del lavoro. La conseguenza è che in questi settori l’Italia, non potendo competere sui costi, è costretta a ridurre il costo del lavoro e/o a decentrare la produzione in paesi in cui tali condizioni sono verificate.
Scontiamo l’assenza di una politica industriale che da oltre un ventennio non ha affrontato le questioni degli investimenti in settori avanzati e, conseguentemente, ha trascurato anche di destinare risorse crescenti nella sede principale in cui si fa ricerca, ossia l’università.
L’Italia è agli ultimi posti delle classifiche internazionali per investimenti in ricerca e sviluppo; ha uno dei più bassi rapporti tra ricercatori e occupati e uno dei più bassi livelli di spesa per istruzione superiore per studente del mondo.
Il paradosso di tutto questo è che, nonostante tutto, ad un esame più attento e meno condizionato da molti luoghi comuni che si leggono su certa pseudo stampa, il livello qualitativo dell’università italiana è tutt'altro che basso. La prova di ciò è rappresentata dalla quota crescente di giovani con elevata formazione che ormai lasciano il nostro paese per trovare una degna collocazione lavorativa all'estero, per non parlare di ricercatori che si formano in Italia e insegnano all'estero.
Se non si invertono che tendenze, il declino del nostro paese è destinato a continuare.



F.I: Si sente tanto parlare di Signoraggio bancario, c'è da credere a queste teorie? 

Vorrei che commentasse questo video che ha reso famoso il personaggio televisivo Adam Kadmon 


A.L: Le questioni poste nel video mi sembrano un guazzabuglio in cui si mettono insieme tante cose con una tendenza “complottistica” che lascia il tempo che trova. Volendo restare con i piedi per terra quello che si può dire è che non può esserci sviluppo economico se non c’è anche un sistema finanziario attraverso il quale il risparmio viene incanalato verso gli investimenti produttivi. Naturalmente la finanza non fa solo questo;  ma il problema nasce, a mio avviso, quando il sistema di regole che disciplina il funzionamento dei mercati finanziari viene meno o si rivela inadeguato, come si è verificato negli Stati Uniti e non solo nel corso degli ultimi venti anni. E’ compito della politica riuscire a regolamentare i mercati e a imporre il rispetto delle regole. Purtroppo il vero problema è l’assenza di un progetto politico che si faccia carico di questi problemi.



F.I: Se il secolo scorso è stato il secolo degli Stati Uniti d’America, quello in corso sembra essere il secolo dove l'economia portante sarà quella asiatica.

Come vede questo mutamento? 



A.L: È ovviamente difficile fare delle previsioni, tuttavia credo che gli Stati Uniti continueranno ancora ad esercitare una forte leadership a livello mondiale rispetto ai cosiddetti paesi “emergenti”. Per quanto indeboliti gli Stati Uniti continuano ancora ad essere un riferimento sia sotto il profilo economico (si pensi alle nuove tecnologie nel campo della “green economy”) che finanziario (il dollaro continua a essere considerata valuta di riserva). Inoltre dal punto di vista politico e sociale, per quanto discutibili possano essere le istituzioni e la società USA, al loro interno vi sono comunque delle forze che premono per dei cambiamenti importanti (si pensi alle questioni della diseguaglianza e alle lotte per i diritti delle minoranze). Non mi sembra che, da tutti questi punti di vista, paesi come la Cina, l’India o la Russia possano rappresentare dei contraltari rilevanti. Certamente sono paesi che hanno sperimentato negli ultimi anni uno sviluppo economico tumultuoso, ma questa crescita economica ha determinato una serie di squilibri rilevanti al loro interno (basti pensare agli squilibri territoriali in Cina fra le aree costiere e le zone interne); inoltre in tutti questi paesi lo sviluppo economico ha portato alla ribalta nuovi ceti sociali che premono per avere anche un riconoscimento politico e questo quindi imporrà prima o poi una messa in discussione del quadro politico e dei regimi al potere. Tenete anche conto che in tutti questi paesi la legittimazione delle classi dirigenti si basa sulla capacità di riuscire a mantenere alti tassi di crescita economica e di distribuire i benefici che ne derivano a quote crescenti di popolazione. Se questo processo si interrompe o rallenta la stabilità politica di questi paesi potrebbe essere seriamente compromessa.



Ringraziamo vivamente il professor Lopes per averci dedicato del tempo, sperando che le sue esaustive risposte abbiano chiarito molti aspetti in un campo molto controverso in cui districarsi e spesso informazioni fuorvianti di blog su internet di sedicenti economisti contribuiscono ad alimentare confusione e disinformazione dilagante.

Francesco Iannone


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