La
neve che cade va a coprire, come se volesse nasconderlo, il paesaggio povero,
quasi in miseria, della Transinistria dei primi anni ’80. Apre, così,
Educazione Siberiana. Ma nascondere la miseria e la violenza che hanno abitato
– e, in parte, abitano ancora - in quei
territori, ad Ovest dell’attuale Russia, è stato, per anni, il rituale e
fallimentare esercizio dei governi sovietici.
La criminalità, quando organizzata, si dà delle regole
ben precise. Un vero e proprio codice etico. Interno al gruppo. Accade anche a
centinaia di chilometri dalla Mosca militarizzata dalle truppe dell’Urss;
all’interno del Clan degli Urca-Siberiani, dell’omonima regione: un vecchio e saggio
nonno dà lezioni di vita al nipote, Kolyma, e al suo migliore amico, Gagarin;
con gli anni, poi, migliori nemici.
Il film, diretto dal premio Oscar Gabriele Salvatores, è
la trasposizione cinematografica, almeno in parte, dell’omonimo libro di
Nicolai Lilin. Lo scrittore russo –che ha pubblicato il libro in italiano- ha
messo nero su bianco le memorie dei suoi viaggi nella regione della
Transinistria, dove, parte della famiglia, vive ancora.
La pellicola è segnata da straordinarie contraddizioni.
Una su tutte: "Criminali onesti". Così, nonno Kuzja –interpretato da John
Malkovich- definisce il suo gruppo, gli Urca-siberiani, spietato clan,
confinato in Siberia da Stalin. Non è solo un ricercato ossimoro, quello a cui
ricorre il nonno, ma una filosofia di vita: loro sono in guerra contro ogni
forma di potere e di sfruttamento; gli Urca hanno una morale aristocratica,
fondata sul valore personale e la tradizione. Uccidono, sì, ma sempre
rispettando quella che, a loro avviso, pare sia la vita: prima di tutto la vita dei
deboli, i “voluti da Dio”, come dicono loro.
UN PICCOLO UNIVERSO, NASCOSTO AL E DAL MONDO. E, per mondo,
s’intende quello occidentale: moderno. E’ una realtà chiusa quella di Kolyma e
gli altri. La loro vita s’aggrappa ad un’utopia fragile, che, inevitabilmente,
lo scorrere del tempo trascina via, proprio come il fiume lungo cui vivono
nella sua piena: travolge tutto; oggetti, amore, amicizie, vite. E nonno Kuzja
non può farci niente. La Storia, quella con la esse maiuscola, è ben più
potente della loro “onestà”, dei sacri valori.
"Un uomo non può possedere più di quello che il suo cuore
può amare". Quando il nonno gli dice queste parole, Kolyma ha dieci anni: risse
e furbate riempiono le sue giornate, insieme agli immancabili amici; Gagarin, il
suo migliore amico, in testa. A quell’età hanno lo sguardo ancora asciutto e
non macchiato da quella vita dissennata. Finché, Gagarin, non viene arrestato.
LA FINE E L'ILLUSIONE DI UN NUOVO INIZIO. Dieci anni dopo, siamo nel 1998, Kolyma porta la divisa
dell’esercito russo e combatte in Cecenia. Nel frattempo tutto è cambiato.
Crollato l’impero sovietico, anche nella sua comunità urca-siberiani dediti al
crimine, qualcuno ha cominciato a pensare che non sia il cuore la misura giusta
dei desideri e che, anzi, niente ci sia di giusto. Anche Gagarin, l’amico della
prima infanzia, uscito dal carcere, cede alle lusinghe del “nuovo mondo”; per
possedere oltre ogni misura ha abbandonato la comunità e l’ha tradita. Per
dirla con le parole di nonno Kuzja: "Ha fatto come un giovane lupo che si fosse
venduto agli uomini, diventando un loro cane".
Ora Kolyma è lì. Con un conto da regolare: deve
ritrovarlo, Gagarin; per ritrovare se stesso.
Una volta trovato, che cosa resterà a Kolyma? Cosa
resterà, se non il desiderio o la speranza che un altro mondo sia possibile?
Che cosa potrà tentare, il giovane “lupo”, se non di scendere a Sud, sempre più
a Sud, verso l’Occidente, cercando un altro futuro?
Lo farà. Con una borsa sulle spalle, lo farà: ignorando, però, la
difficoltà di incontrare, tempi e luoghi,
in cui i “lupi” non desiderino farsi “cani”.
Giovanni Vanore
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