Quale speranza per la sinistra italiana? Storia di un partito mai nato
Quale speranza per la sinistra italiana? Storia di un partito mai nato
di Raffaele Ausiello
Era
il 2007 quando sotto il secondo governo Prodi, i maggiori partiti
dell’area di centro sinistra, in particolare DS e Margherita, mostrarono
l' unanime volontà di fondare un partito capace di racchiudere tutte le
anime progressiste, riformiste e socialiste sotto un’unica bandiera
comune che si rifacesse ai valori della moderna sinistra europea. Questo
ambizioso progetto, portato avanti allora per dare un’unica voce alla
sinistra italiana e per indicare un’unica linea politica da seguire,
risultava però già frastagliato dalla nascita, attraversato da correnti
di area socialdemocratica da una parte e di correnti di area
cristiano-sociale dall’altra, con piccoli filoni minoritari di liberismo
sociale e di ecologismo. Già nel 2006 il candidato premier del
centro-sinistra Romani Prodi aveva capito che per vincere le imminenti
elezioni era necessario allineare partiti diversi tra loro e spesso
anche molto lontani, uniti contro l’avversario comune Silvio Berlusconi:
fu così che nacque la coalizione “L’Unione”, prima prova di partito
unitario, che risultò vincente. Nonostante il naufragio di
quell’esperimento di governo nel 2008 a causa di insanabili spaccature
tra i cristiano-popolari dell’UDEUR ed i membri della sinistra radicale
di Rifondazione Comunista, l’ormai neonato Partito Democratico si era
già ritagliato il suo spazio all’interno del variopinto panorama della
sinistra italiana, compattandosi sulla figura del neoeletto segretario
Walter Veltroni pronti a mettere in campo la macchina da guerra
elettorale in vista delle elezioni per il rinnovo della XVI legislatura
dopo il fallimento del Presidente del Senato Franco Marini di un mandato
esplorativo per tentare di formare una maggioranza parlamentare che di
fatto non esisteva più, grazie anche alla compattezza del centro destra
che già assaporava la prossima vittoria elettorale. Come da pronostico
il PD, che aveva tagliato fuori l’estrema sinistra ormai bollata come
“inaffidabile” dopo i vari appoggi parlamentari venuti a mancare, non
riesce a battere la coalizione di centro destra guidata da Silvio
Berlusconi che dopo mesi di propaganda mediatica ha vita facile
riuscendo ad ottenere una netta affermazione sia alla Camera che al
Senato. La sinistra più radicale però fu solo la prima di tante
spaccature causate dal PD, nel 2009 dopo la vittoria alle primarie per
la segreteria di Pierluigi Bersani infatti fecero le valige anche uno
degli storici fondatori, l’ex presidente della Margherita Francesco
Rutelli seguito poi anche da Movimento Repubblicano, preoccupati che il
PD prendesse una svolta troppo marcata a sinistra allontanandosi dal
centro. Altra occasione di divisioni interne si presentò nel 2011 alla
caduta del IV Governo Berlusconi, quando l’ipotesi di un governo tecnico
presieduto dall’economista Mario Monti divise il Partito tra favorevoli
all’appoggio di governo e “antimontiani” provenienti soprattutto da
aree socialdemocratiche che oggi si identificano nella corrente dei
“Giovani Turchi”. Nonostante questa divisione però il PD non ha mai
fatto mancare la fiducia parlamentare in maniera compatti al governo
Monti. Nel frattempo però una nuova frangia di giovani amministratori
guidati principalmente dal sindaco di Firenze Matteo Renzi, il
Consigliere Regionale della Lombardia Giuseppe Civati e l’Eurodeputata
Debora Serracchiani lancia una nuova sfida alla leadership del
segretario Bersani, puntando sul rinnovamento della classe dirigente del
partito con la “rottamazione” di esponenti giudicati oramai anziani sia
anagraficamente sia politicamente per guidare un partito che si pone
l’ambizione di guidare l’Italia. Questo scontro, rimasto latente per
tutto il corso del governo tecnico, sale alla ribalta nell’occasione
della caduta di Monti a causa della mancata fiducia della maggioranza di
centro destra; per Bersani modificare lo statuto del PD affinché Matteo
Renzi possa partecipare alle primarie della neonata coalizione di
centrosinistra, con la presenza dei centristi dell’API guidati
dall’assessore al Comune di Milano Bruno Tabacci e la sinistra più
marcata di SEL capitanata dal Presidente Regionale della Puglia Nichi
Vendola, rappresenta un occasione unica per battere sul campo elettorale
i dissidenti renziani al fine di blindare con il consenso popolare la
propria segreteria. Il progetto di Bersani riesce battendo al secondo
turno Renzi con oltre il 60% dei consensi, spianando così la strada alla
sua candidatura alla Presidenza del Consiglio dei Ministri in vista
delle imminenti elezioni. Bersani però, nonostante il crescente
entusiasmo del “popolo delle primarie”, della fiducia di una coalizione
solida denominata “Italia Bene Comune” e da un ritrovato entusiasmo
elettorale, fallisce miseramente l’appuntamento con la vittoria,
riuscendo a strappare la maggioranza nella sola Camera dei Deputati
grazie al premio di maggioranza, ma naufragando nelle regioni chiave
fondamentali secondo la nostra vergognosa legge elettorale, fallendo così
l’obbiettivo maggioranza al Senato. A causa dei malumori interni dovuti
alla sconfitta, molti hanno puntato il dito contro Bersani, incapace di
conquistare l’elettorato anche grazie ad una campagna elettorale povera
e mal gestita, le numerosissime correnti interne hanno iniziato ad
affilare i coltelli in vista di una scadenza fondamentale: la scadenza
del settennato di Giorgio Napolitano.
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