mercoledì 24 aprile 2013

Quale speranza per la sinistra italiana? Storia di un partito mai nato

Quale speranza per la sinistra italiana? Storia di un partito mai nato
di Raffaele Ausiello 
 
Era il 2007 quando sotto il secondo governo Prodi, i maggiori partiti dell’area di centro sinistra, in particolare DS e Margherita, mostrarono l' unanime volontà di fondare un partito capace di racchiudere tutte le anime progressiste, riformiste e socialiste sotto un’unica bandiera comune che si rifacesse ai valori della moderna sinistra europea. Questo ambizioso progetto, portato avanti allora per dare un’unica voce alla sinistra italiana e per indicare un’unica linea politica da seguire, risultava però già frastagliato dalla nascita, attraversato da correnti di area socialdemocratica da una parte e di correnti di area cristiano-sociale dall’altra, con piccoli filoni minoritari di liberismo sociale e di ecologismo. Già nel 2006 il candidato premier del centro-sinistra Romani Prodi aveva capito che per vincere le imminenti elezioni era necessario allineare partiti diversi tra loro e spesso anche molto lontani, uniti contro l’avversario comune Silvio Berlusconi: fu così che nacque la coalizione “L’Unione”, prima prova di partito unitario, che risultò vincente. Nonostante il naufragio di quell’esperimento di governo nel 2008 a causa di insanabili spaccature tra i cristiano-popolari dell’UDEUR ed i membri della sinistra radicale di Rifondazione Comunista, l’ormai neonato Partito Democratico si era già ritagliato il suo spazio all’interno del variopinto panorama della sinistra italiana, compattandosi sulla figura del neoeletto segretario Walter Veltroni pronti a mettere in campo la macchina da guerra elettorale in vista delle elezioni per il rinnovo della XVI legislatura dopo il fallimento del Presidente del Senato Franco Marini di un mandato esplorativo per tentare di formare una maggioranza parlamentare che di fatto non esisteva più, grazie anche alla compattezza del centro destra che già assaporava la prossima vittoria elettorale. Come da pronostico il PD, che aveva tagliato fuori l’estrema sinistra ormai bollata come “inaffidabile” dopo i vari appoggi parlamentari venuti a mancare, non riesce a battere la coalizione di centro destra guidata da Silvio Berlusconi che dopo mesi di propaganda mediatica ha vita facile riuscendo ad ottenere una netta affermazione sia alla Camera che al Senato. La sinistra più radicale però fu solo la prima di tante spaccature causate dal PD, nel 2009 dopo la vittoria alle primarie per la segreteria di Pierluigi Bersani infatti fecero le valige anche uno degli storici fondatori, l’ex presidente della Margherita Francesco Rutelli seguito poi anche da Movimento Repubblicano, preoccupati che il PD prendesse una svolta troppo marcata a sinistra allontanandosi dal centro. Altra occasione di divisioni interne si presentò nel 2011 alla caduta del IV Governo Berlusconi, quando l’ipotesi di un governo tecnico presieduto dall’economista Mario Monti divise il Partito tra favorevoli all’appoggio di governo e “antimontiani” provenienti soprattutto da aree socialdemocratiche che oggi si identificano nella corrente dei “Giovani Turchi”. Nonostante questa divisione però il PD non ha mai fatto mancare la fiducia parlamentare in maniera compatti al governo Monti. Nel frattempo però una nuova frangia di giovani amministratori guidati principalmente dal sindaco di Firenze Matteo Renzi, il Consigliere Regionale della Lombardia Giuseppe Civati e l’Eurodeputata Debora Serracchiani lancia una nuova sfida alla leadership del segretario Bersani, puntando sul rinnovamento della classe dirigente del partito con la “rottamazione” di esponenti giudicati oramai anziani sia anagraficamente sia politicamente per guidare un partito che si pone l’ambizione di guidare l’Italia. Questo scontro, rimasto latente per tutto il corso del governo tecnico, sale alla ribalta nell’occasione della caduta di Monti a causa della mancata fiducia della maggioranza di centro destra; per Bersani modificare lo statuto del PD affinché Matteo Renzi possa partecipare alle primarie della neonata coalizione di centrosinistra, con la presenza dei centristi dell’API guidati dall’assessore al Comune di Milano Bruno Tabacci e la sinistra più marcata di SEL capitanata dal Presidente Regionale della Puglia Nichi Vendola, rappresenta un occasione unica per battere sul campo elettorale i dissidenti renziani al fine di blindare con il consenso popolare la propria segreteria. Il progetto di Bersani riesce battendo al secondo turno Renzi con oltre il 60% dei consensi, spianando così la strada alla sua candidatura alla Presidenza del Consiglio dei Ministri in vista delle imminenti elezioni. Bersani però, nonostante il crescente entusiasmo del “popolo delle primarie”, della fiducia di una coalizione solida denominata “Italia Bene Comune” e da un ritrovato entusiasmo elettorale, fallisce miseramente l’appuntamento con la vittoria, riuscendo a strappare la maggioranza nella sola Camera dei Deputati grazie al premio di maggioranza, ma naufragando nelle regioni chiave fondamentali secondo la nostra vergognosa legge elettorale, fallendo così l’obbiettivo maggioranza al Senato. A causa dei malumori interni dovuti alla sconfitta, molti hanno puntato il dito contro Bersani, incapace di conquistare l’elettorato anche grazie ad una campagna elettorale povera e mal gestita, le numerosissime correnti interne hanno iniziato ad affilare i coltelli in vista di una scadenza fondamentale: la scadenza del settennato di Giorgio Napolitano.  

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